Lo Schumann della Fantasia op.17 in Do maggiore, per cominciare. Uno dei capolavori del compositore sàssone, ed insieme uno dei vertici della musica pianistica romantica. La storia all’origine del pezzo è ben nota a tutti gli appassionati di musica pianistica, trattandosi di una sorta di canto d’amore e di dolore per l’amata lontana. In realtà, dietro la dizione ingannevole di Fantasia, si cela il brano schumanniano formalmente e concettualmente più complesso, ed anche il più virtuosistico, insieme agli Studi Sinfonici. Ebbene, l’interessante chiave interpretativa scelta dalla nostra pianista ci è sembrata molto più vicina allo spirito dello Schumann giovanile - che partiva lancia in resta contro i filistei della musica -, piuttosto che a quello intimistico e prossimo ad un poeta notturno come il Novalis, che altri interpreti vi vedono. E in questa luce, il tempo centrale (che porta il titolo “Trofei”) assumeva un ruolo ben più importante rispetto a quello usuale di semplice intermezzo posto tra i più estesi movimenti estremi (“Rovine” e “Palme”). Un’esecuzione di grande forza e dalla tecnica impeccabile, persino nella coda che conclude il secondo tempo, temutissima da tutti i pianisti per i suoi pericolosi salti (persino Horowitz, nelle sue esecuzioni pubbliche americane, pare rallentasse sensibilmente in questo passo), e che la D’Auria ha affrontato con tranquillità e senza alcun timore.
E poi Liszt. Dapprima il Liszt trascrittore di Wagner della “Morte di Isotta” (1867), brano attualmente poco eseguito sia per l’estrema difficoltà nel rendere giustizia a tutte le sue sfumature, sia perché le trascrizioni che Liszt faceva di celebri pezzi operistici, assai in voga e popolari presso il pubblico fino ai primi decenni del secolo scorso, sono poi cadute in discredito, essendo considerate da molti pianisti e musicologi musica spettacolare e di secondo ordine (a torto, almeno a parer nostro). Di seguito, il Liszt della Leggenda di S.Francesco di Paola che cammina sulle acque, del 1863, uno dei grandi affreschi musicali dell’ungherese. Senza enfasi, diremo che le esecuzioni di questi due brani si pongono tra le più belle da noi ascoltate, anche includendo quelle in disco. Una perfetta fusione di virtuosismo ferreo, tecnica trascendentale del tocco, e fantasia narrativa. Persino la forma, aspetto di solito poco evidenziato in questi brani rispetto agli aspetti pittorici e descrittivi, balzava fuori con un’evidenza abbagliante.
La stessa baldanza cavalleresca della Fantasia schumanniana abbiamo ritrovato nella Polacca-Fantasia op.61 di Chopin. Come noto, questo pezzo del tardo Chopin si pone in limine ad una nuova fase creativa del compositore polacco, interrotta dalla morte prematura, e rende possibili due diverse possibilità interpretative, poco compatibili tra loro: o mantenerla nella luce della Polacche precedenti (la scelta, ad esempio, di Pollini) oppure di vederla entro una nascente ricerca coloristica, che prelude con decenni di anticipo all’impressionismo. Elisa D’Auria ha chiaramente privilegiato la prima opzione, e la ha seguita con perfetta coerenza. Inaspettatamente, alcuni passaggi ci hanno ricordato però non tanto la più nota Polacca “Eroica” op.53, bensì la meno conosciuta e bellissima Polacca op.44. E assai suggestiva la parte finale, che si allontanava verso l’orizzonte, sospesa tra sogno e trionfo.
Due i bis: la Sonata K.394 in Mi minore di Scarlatti, dagli umori tanto contrastanti, e “Warum?” (“Perché?”) terzo brano della raccolta Fantasiestücke op.12 di Schumann, con il quale questo magnifico concerto si chiudeva nel silenzio di una domanda senza risposta.
Massimo Sacchi
Fotografia di Enzo Mari (Assesempione)Orchestra da camera della città di Legnano Franz Joseph Haydn.
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